11 novembre 2006

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8 novembre 2006

Alle sorgenti del sacro: uno sguardo sulle forme della sacralità primigenia.
di C. M. – Associazione la Via dei Mulini - (Polcenigo – 21/10/2006)

Il rapporto fra uomo e acqua/sacro, va considerato per la sua costante e basilare importanza, come elemento che scaturisce quando l’uomo uscendo (come amano dire gli antropologi) dalla fase di “natura” entra in quella di “cultura”, e cerca di condizionare l’ambiente in cui abita, di trarne profitto, di interpretarlo a proprio vantaggio. I miti legati all’acqua hanno quindi queste caratteristiche primigenie, sostanzialmente comuni ovunque: senza necessità di “importazioni” o particolari imposizioni culturali. Secondo gli antropologi l’importanza delle acque, e quindi anche la loro lettura “sacro-misterica”, si originerebbe in modo piuttosto costante, non appena l’Homo diventa veramente Uomo sociale e culturale. Quindi, per capire il viaggio parallelo di acqua e sacro, e per interpretarne i residui odierni in fòle e fiabe, nell’ immaginario composito di fate, di aguane, di donne selvatiche e dee madri, è necessario comprendere anzitutto di quali interpretazioni e funzioni l’uomo carica l’ elemento acqua. Da qui si potrà partire con le riletture e le interpretazioni alla narrativa che la circonda. Sarà interessante, poi, mettere in relazione l’interpretazione del sacro a quella che è la diversa, e progressiva, organizzazione economica e sociale delle comunità nel corso dei secoli.

Che miti simili (rassomiglianti) possano nascere in realtà diverse, lo ha ben mostrato Propp (1972), studiando le strutture comuni dei racconti di fata, nel mondo. Le strutture delle fiabe si legano al vissuto degli individui, al processo di crescita sia dell’individuo stesso ( i bambini metaforicamente muoiono per diventare uomini, come l’eroe di tutte le fiabe simbolicamente fa, passando attraverso una morte rappresentata talvolta da un bosco, talvolta un monte, talvolta un drago ecc). Ma, ricorda Propp (influenzato in questo dallo storicismo marxista), bisogna tener conto anche del “processo di crescita” della società in cui abita l’individuo al quale viene raccontata la fiaba. In poche parole la società, con le sue realtà quotidiane ha una sua importanza nell’elaborare i miti, i racconti, le funzioni rituali e adattarle al contesto. Nelle società primitive, dove ancora si praticano riti iniziatici per marcare il passaggio all’età adulta, esse raccontano nientemeno che qualcosa di concreto, qualcosa che avverrà al bimbo di lì a qualche anno (gli spiegano come dovrà morire ritualmente da bambino per rinascere uomo).
Così, dice Propp, man mano che le società si organizzano diversamente (da raccoglitori a stanziali, da agricoltori a commercianti, da mercanti a impiegati in banca), esse finiscono quella funzione primaria e saranno riadattate per raccontare il mito d’origine della tribù di nascita, la vicenda eroica del capostipite, oppure (con contaminazioni colte) quella del potere politico, del regnante di turno, del dominus feudale; o infine, ristrutturate e consapevolmente utilizzate, raccontano e spiegano come il “rozzo popolano” possa rigenerarsi in un “cittadino modello” del nuovo stato nazionale: il Pinocchio di Collodi che abbandona per sempre le sembianze di burattino per diventare un bravo bambino!

La struttura dei miti e dei racconti rimarrebbe la stessa in tutto il mondo, perché comuni sono gli elementi che la scatenano, sostiene Propp. Quello che cambia sono poi le componenti più superficiali di queste narrazioni, prese dalla quotidianità, dalle paure di ogni giorno, dalla funzione didattica che gli si attribuisce. In sostanza, la fiaba, il mito, non si trasmetterebbe per opera “diffusionista”, importata qui e lì da tribù vaganti o popoli guerrieri nomadi delle pianure indoeuropee. Esse si genererebbero, anzitutto, per il rapporto immediato dell’uomo con il suo ambiente. Tribù vaganti, popoli nomadi, modi di sfruttamento economico del territorio, organizzazioni gerarchiche e sociali delle comunità, aiuterebbero solo a dare nomi, colori, funzioni diverse, a quelli che sono i bisogni intimi dell’uomo di rapportarsi con il proprio ambiente, e con gli eventi più importanti della vita e della sopravvivenza.
Ma ritorniamo all’acqua e al sacro.
Prima di arrivare alla cultura e alle sue costruzioni, sarebbe bene partire dalla natura per come si presenta e definisce il territorio. Sappiamo che l’area delle risorgive, quella fascia di 1-2 chilometri della pianura ai piedi delle prealpi italiane, è uno spazio territoriale molto particolare. È uno spazio che non ha uguali perché solo qui, in tutta la pianura, nasce spontaneamente, esce e viene alla luce, quella cosa imprescindibile per la vita che è l’acqua: acqua limpida, generalmente costante e che arriva dalle profondità della terra con una temperatura sempre identica.(Breda, 2001, 33). Possiamo visualizzare con facilità come questo, soprattutto nelle società primitive, potesse esser considerato alla stregua del miracolo, legato alle necessità del quotidiano umano. Inoltre, bisogna pensare che alle sorgenti di pianura ci si arriva, come ad un punto d’incrocio, territorialmente da ogni luogo, come punto di confluenza privo di vere barriere fisiche. E’ un apice che si può raggiungere praticamente senza ostacoli. In termini di raggiungibilità le sorgenti non creano quella separazione fisica che le stesse acque daranno quando diventano fiumi: costruendo un “di qua” e un “di là” (del Piave, del Livenza). Dei “di qua” e “di là” che diventano man mano, in fase storica, perfino barriere linguistiche e culturali.

Non è certo un caso che proprio qui, sui palù del Livenza, si abbia uno dei più importanti insediamenti preistorici dell’Italia settentrionale (fra V e IV millennio A.C.) (Breda, 2001, 147) . Una sorta di continuità, per quanto molti secoli li dividano, che vedremo costantemente ripercorsa, almeno in termini assorbimento delle linee commerciali più antiche. L’importanza di questa fascia territoriale si ritrova nettamente riproposta nell’età del ferro, secondo la direzione Tagliamento,Vivaro, Polcenigo, Ceneda, Montebelluna, Brenta con la linea delle risorgive a fare da polo attrattivo e itinerario di traffico collaudato, costellato da luoghi di culto (si pensi ai ritrovamenti paleoveneti a Cordignano, al Monte Altare di Vittorio, a Montebelluna). (Arnosti, 1993, 59)

Ma cosa poteva rappresentare quest’acqua viva e nascente? Quale archetipo si va costruendo attorno ad una risorgiva? Scavando nei miti più antichi, quelli meno condizionati da sovrastrutture sociali e contingenti (i condizionamenti dei cambiamenti socioeconomici di cui abbiamo già detto) pare che l’idea prevalente sia quella di una divisione fra due mondi. Da un lato il mondo dell’uomo fatto di terra, dove si può lavorare, scavare, coltivare, vedere nascere il pane e costruire; in contrapposizione un mondo su cui non è possibile intervenire. L’acqua come una forza a se stante, non lavorabile, autonoma ed esterna alla volontà umana, ma al contempo, ineluttabile ed indispensabile alla stessa sopravvivenza.

Miti d’origine, non propri del Livenza ma raccolti vicino al Piave, narrano di un’acqua primordiale che tutto ricoprirebbe e che regnerebbe su terra ed uomini: impedendo quindi la stessa esistenza alle comunità umane. Anche il famoso mugnaio del ‘600 di Montereale Valcellina, Menocchio, guarda all’origine del mondo come se “nel principio questo mondo era niente, et che dall’acqua del mare fu batuto come una spuma, et si coaugulò come un formaggio, dal quale poi nacque gran moltitudine di vermi, et questi vermi diventorno homini”. Generalmente nei miti, anzichè questa generazione spontanea dall’acqua, si ha magari un diretto intervento antropomorfo: un tuffo eroico nelle acque, il tuffo di un Dio, di un capostipite tribale, l’eroe, permette di recuperare una porzione di terra che poi diventa il mondo abitabile su cui vive e lavora l’uomo. Miti di questo genere, beninteso, sono presenti in ogni parte del mondo. In alcuni casi, la vicenda si razionalizza fino a diventare parte della storia “verificabile”: magari – come raccontano vicino al Piave - sono stati i frati, o qualche Turco di passaggio, a “far portare la terra con le barche” a “far saltare una mina” per togliere all’acqua il dominio sul mondo noto restituendo la terra sepolta al mondo dei vivi.(Eliade, 1989; Breda, 2001; Albert-Llorca, 1991). In questi casi, oltre ad evidenti visioni contadine, di chi parteggia per la terra che è la parte solida del mondo, si può poi arrivare fino alle re-interpretazioni dualistiche delle riletture cristiane di uno scontro fra Dio e il diavolo.

L’acqua, quindi, risulta un elemento vitale, ma soprattutto un elemento “altro”, distinto dal mondo reale, o meglio “di confine”. Nelle tradizioni antiche esiste solo lo specchio dell’acqua a poter riflettere e sdoppiare le persone: la parte concreta e materiale di qua, una parte “altra da se”, intoccabile, misteriosa - ovvero l’anima secondo alcune interpretazioni primitive - riflessa, “di là”. Questi luoghi d’acqua risultano, quindi, dei veri e propri spartiacque: dei luoghi di transito, dei confini con mondi diversi e lontani. Lo stesso, in realtà, accade anche per boschi, grotte ed anfratti, ma l’acqua, a differenza loro, porta in un elemento vitale che ben la contraddistingue: è risorgiva in sé - per le bolle che perpetuamente e “mirabilmente” escono - risorgiva al contempo anche per l’uomo e per i suoi bisogni.

Lo specchio d’acqua, soprattutto se acqua vivente (se non addirittura in alcuni casi acqua con proprietà particolari per la composizione chimica che le è propria) diventa quindi un luogo di comunicazione e di relazione diretta con il mondo dei morti. Essa incarna le speranze, le richieste, le petizioni più disparate. È qui, dove l’acqua emerge spontanea dal basso, che si può invocare che l’acqua appaia spontanea anche dall’alto (secondo noti meccanismi rituali di magia omeopatica o imitativa (Frazer, 1965, 87) imitare il tuono, spruzzare acqua in aria). Si può invocare che l’acqua porti fertilità alla terra, rinvigorisca il raccolto, dia di che sfamare l’intera comunità. Naturalmente, la fertilità è l’abbondanza sono femminili e legati alle donne come dimostrano ampiamente le tradizioni primitive e l’ovvia conformazione biologica della specie umana.

Tutti questi elementi fondanti: la fertilità data dalla vitalità dell’acqua, la presenza di una porta comunicante con un altro mondo, rimangono parte integrante e strutturale di tutti i miti rintracciabili nei pressi di una sorgente. Su un tale sostrato basilare, costituito di elementi costanti e ben rintracciabili nel corso del tempo, solo poi si incarna la cultura, l’accidente della Storia con i suoi influssi ed eventi. Gli eventi della Storia rileggono, reinterpretano, aggiornano e modificano: fòle, leggende, narrazioni, riti. Quello che ne rimane a noi, oggi, sono da un lato effigi materiali, o resti archeologici; dall’altro racconti orali, dicerie, tradizioni. La variabilità e il contenuto di tutti questi materiali, la loro sovrapposizione ed il reciproco intreccio, sono di fondamentale importanza: proprio perché descrivono le risposte del contesto, nel corso dei secoli, alle sollecitazioni degli eventi.

Dal “divino puro” di una grande madre, fino alla donna prosperosa che sembra una lavandaia (ma se pronunci qualche frase fatata si trasforma in un serpente), ritroviamo comunque gli elementi magici, femminili, legati alla fertilità ed al rapporto fra mondo dei vivi e modo dei morti. Considerando alcuni degli esseri fantastici meglio studiati, come le aguane e le fate, possiamo agevolmente ritrovare i vecchi paradigmi anche sotto crosta arricchita dai progressivi mutamenti socioeconomici e culturali della società. Daniela Perco (1997), nel suo studio sulle aguane, sottolinea già una prima differenza che riguarda le connotazioni “etiche” di questi personaggi. Le anguane risulterebbero prevalentemente positive nelle prealpi venete e prevalentemente negative in Friuli. Questa differenza potrebbe essere dettata dal diverso grado di pressione, e controllo sociale, esercitato sul mito originario dalla cristianizzazione. Come vedremo, dove il tentativo di repressione del mito è stato più forte, può essersi generato uno sdoppiamento, le vecchie funzioni degli esseri misteriosi-divini si sarebbero polarizzate in questi casi: lasciando da un lato gli attribuiti più negativi (streghe, aguane, serpenti); e assegnando da un altro lato i vecchi attributi positivi a nuovi soggetti (fate, sante cristiane e martiri, Madonna).

In ogni caso, nelle aguane, ritroviamo caratteristiche fisiche che evidenziano l’alterità rispetto al mondo umano (gambe di capra rovesciate, trasformazione in serpente, squilibri deambulatori). Questa alterità, generalmente, mantiene alla base almeno un elemento positivo, quello di permettere la mediazione fra i due mondi. Le aguane, oltre ad accoppiarsi con uomini, generare figli – elementi che le rapportano direttamente con l’antico attributo della fertilità – sono, anche secondo letture più tarde e razionalizzate, sempre impegnate in attività tipiche della riproduzione e della perpetuazione del ruolo femminile nella comunità: filano, tessono, ricamano, lavano panni, pettinano le figlie. Sostanzialmente dispensano abbondanza e civilizzazione, perché trasmettono al mondo dei vivi conoscenze e che sono del mondo dei morti. Al contempo esse sorvegliano anche sulle interdizioni ed i divieti sociali: scatenano anime morte quando avviene l’infrazione di un tabù. Da un altro punto di vista, poi, sono spesso maldestre nelle loro azioni, perché non completamente integrate nel mondo reale. Infine, in alcune occasioni possono essere considerate le anime di donne morte di parto.(Perco, 1997)


Ma l’attività di lavandaie e lo stendere i panni, spesso attribuito alle aguane, ben descrive i cambiamenti culturali e sociali in corso, e del come le narrazioni possano essere adattate al contesto e caricate di nuovi significati prima imprevisti. Anzitutto è importante segnalare come l’esposizione dei panni potesse assumere, all’interno delle comunità, significati sociali pregnanti: si tratta di mettere in mostra, quasi con spirito competitivo, le ricchezze della famiglia, rivendicare il proprio status sociale e l’abilità delle donne di casa. Si tratta di uno stadio piuttosto avanzato di “civilizzazione”se si tiene presente che fino, alla tarda età moderna, le comunità cercano in ogni modo di preservare un certo egualitarismo di status interno (Povolo, 2004)
Anche collegandosi ad alcune tradizioni venete che prevedono liscive al momento dei funerali (Coltro, 178) queste vanno lette, sul piano spirituale, come necessarie per consentire al morto purificazione ed accesso al paradiso. In sostanza si può pensare che l’azione delle aguane del pulire i panni sia niente meno che un atto di purificazione delle anime penitenti, il risciacquo narrato in alcune tradizioni servirebbe a togliere i morti dalle pene ai quali sono condannati. Il contravvenire, da parte di un umano, ad un patto fatto con le aguane - ovvero il gettare i panni già lavati in un lago scatenando furie e conseguenze impreviste - rappresenta niente meno che il sacrilegio di rigettare le anime in pena nel loro luogo di espiazione. A livello di una lettura storica, trovare narrazioni che inseriscano questi oggetti della vita quotidiana, carichi di tali attributi spirituali, ci dice che questo poteva accadere solo se, per chi raccontava ed ascoltava queste fòle, cioè nella cultura popolare, era già ben chiaro il concetto cristiano medievale di “anima penitente”.

Questi brevi esempi sulle aguane ben ci descrivono come le strutture superficiali dei miti, i particolari minuziosi aggiunti ai racconti, i dettagli più coloriti, possano illustrare le sollecitazioni del contesto storico sulle basi mitologiche preesistenti. Per concludere, credo sia utile ritornare alla polarizzazione bene/male scatenata dallo scontro fra la cultura dotta cristiana e le persistenze di miti e simbologie popolari o “pagane”. Come è stato ben dimostrato per le figure delle fate celtiche delle mitologie Nord-Europee : le divinità femminili, di cui il cristianesimo dotto tramanda memoria negli scritti che parlano del passato, sono principalmente le Parche. Questi esseri, con loro caratteristiche “profetiche” e di “anziane decadenti”, si allontanano dai caratteri ammalianti delle Ninfe o delle dee dell’abbondanza e della fertilità. Ma alla tradizione delle Parche, di cui appunto è legittimo per chierici ed apologisti cristiani tramandare memoria, si affiancherà nel medioevo (XII sec.) anche la figura della fata. Il merito è della tradizione “cortese”, e quindi della letteratura cavalleresca nella cultura aristocratica in lingua vernacolare. Questa piccola e media aristocrazia sembrava non accettare completamente i modelli culturali proposti dalla Chiesa, e sotto l’apparente conformità, coltiva un atteggiamento mentale di fusione fra l’uomo e la natura, di una certa continuità (anche totemica) fra l’uomo, il regno animale e il regno vegetale. Le persistenze di miti legati alla fertilità e al mondo dei morti, e le loro interpretazioni distanti dall’umanesimo cristiano, finiscono per dar luce a figure anche letterarie come le fate ( Morgana e Melusina in particolare) ( Le Goff, 1977,309 ; Harf-Lancner, 1989).



Da parte cristiana, la risorgenza di nuove figure, e in generale alla persistenza dei miti precedenti, da luogo, come nel caso delle fate Nord-Europee, un atteggiamento di relativa tolleranza, relegandole ad un mirabilis narrativo, caratteristico del soprannaturale non cristiano. Tutto ciò che è meraviglioso è ricoperto con la benevolenza non repressiva del racconto di fantasia. Questa è anche la sorte delle aguane, siano esse caratterizzate da attributi negativi o attributi positivi.
Tuttavia, nel concreto della vita sociale delle comunità, rimangono i retaggi del magico e delle superstizioni: l’idea che atti umani intrapresi nei confronti della natura possano modificarla, alterarla, richiamare i defunti, modificare gli eventi. Tutto questo nella visione cristiana viene fermamente condannato, tacciato di stregoneria e connivenza diabolica: dando luogo a violente repressioni.
Ma gli aspetti più benevoli di quello che era stato il rapporto fra uomo e natura, fra uomo/acqua e sacro, vengono conservati quasi immutati dalla tradizione cristiana, per merito popolare. Si mantengono tutti i culti di abbondanza e fertilità, tanto necessari alla quotidiane speranze delle comunità: all’agricoltura, alla riproduzione e fecondità delle donne ecc. Si mantiene, in una certa impotenza delle dottrine ecclesiastiche ufficiali, l’attribuzione ad una donna del ruolo di mediatrice fra il “di qua” concreto reale, terreno, ed l’aldilà spirituale ed immateriale. La figura che nell’Europa cristiana meglio incarna queste caratteristiche, è agli occhi della tradizione popolare la Madonna: che, in questo modo, assume attribuzioni anche estranee al personaggio storico dei Vangeli della tradizione paleocristiana.



Bibliografia

M. Albet-Llorca, L’ordre des choses. Les récits d’origine des animaux et des plantes en Europe, Paris, E d C d Travauz Historiques et Scientifiques, 1991

G. Arnosti, Il nume tutelare della “Stipe” di Villa di Villa, in il Flaminio, 1990, n°5

N. Breda, Palù. Inquieti paesaggi tra natura e cultura. Treviso/Verona, Cierre edizioni/Canova, 2001

D. Coltro, Mondo contadino, anno ...

M. Eliade, Il mito della reintegrazione, Milano, Jaca Book. 1989

J. G. Frazer, Il Ramo d’oro. studio sulla sociologia e la religione. Newton, 1992

L. Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel medioevo, Torino 1989

J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977

D. Perco, Le Anguane: mogli, madri e lavandaie, in la Ricerca Folklorica, No. 36, 1997, pp. 71-81

C. Povolo, La piccola comunità e le sue consuetudini, (inedito), Università di Venezia, 2004

V. J. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Bollati Boringhieri, 1972

P. Sorcinelli, Storia sociale dell’acqua. Riti e culture. Milano, Bruno Mondadori, 1988

1 novembre 2006

La storia

"Al Mazarol" è nato alla fine degli anni '80 come giornalino di satira politica locale. Svegliandosi alla mattina gli abitanti di Cison di Valmarino (TV) trovavano le sue copie nella cassetta della posta, depositate furtivamente nottetempo... Le principali "battaglie" politiche sono state condotte contro il degrado ambientale e urbanistico. Fra le azioni più significative l'impegno per la riapertura del passo S. Boldo, che rimase chiuso per anni con grave danno economico per le popolazioni di S.Antonio Tortal, S.Boldo, Trichiana, Tovena. Memorabile la manifestazione del 12 Giugno 1988 in occasione del passaggio dell'ultima tappa del 71° Giro d'Italia.
Oggi Al Mazarol è l'anima goliardica di una serie di attività culturali che hanno luogo nel corso di tutto l'anno a Cison di Valmarino.
Dal 1992 il Gruppo "Al Mazarol" è spirito attivo nella realizzazione della più grossa manifestazione che ha luogo nel comune : "Artigianato Vivo". E da qui è forse cominciata una svolta sia nella storia del gruppo che nella storia della Rassegna. Questa ha cambiato completamente fisionomia sperimentando una formula che oggi molte pro-loco della zona sembrano apprezzare e seguire.
Altra significativa svolta nella storia del gruppo si ha nel Gennaio del 1998 quando si costituisce ufficialmente l'Associazione "La Via dei Mulini", nei fatti il volto serio e sapiente del Mazarol. La forza del gruppo sta nella sua variegata formazione, nell'innesto di non Cisonesi, nella composizione trasversale ad ogni orientamento politico. Un gruppo impegnato concretamente soprattutto nella realizzazione di cose. Dove per cose si intendono: feste, iniziative editoriali, sostegno di progetti di documentazione, spiedi infiniti e squisiti, braccia che puliscono e spalano, visite guidate, rassegne culturali, dibattiti, musica, teatro...
Scopo dell'associazione è di rivalutare e promuovere turisticamente il patrimonio culturale ambientale e storico costituito dalle testimonianze di archeologia industriale lungo la valle del torrente Rujo. L'attività principale è stata finora l'organizzazione di escursioni e visite guidate lungo il percorso, che su prenotazione, è possibile concordare.